Disegno di legge "Conversione in legge del decreto legge 25 settembre 2009. n. 135, recante disposizioni urgenti per l'attuazione di obblighi comunitari e per l'esecuzione di sentenze della Corte di Giustizia e delle Comunità Europee".
Martedì 3 novembre 2009
Dall'esame del decreto legge 25 settembre 2009 n. 135, recante disposizioni urgenti per l'attuazione di obblighi comunitari e per l'esecuzione di sentenze della Corte di Giustizia delle Comunità europee, emergono numerose criticità.
All'uopo, preme, in primis, rilevare l'inadeguatezza dello strumento utilizzato. Si è scelto di far confluire in un decreto omnibus temi di notevole rilevanza non avvinti da alcun nesso di pertinenza.
A mero titolo esemplificativo, non già esaustivo, si disciplinano nello stesso provvedimento legislativo temi quali le modalità di affidamento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, la definizione del prodotto Made in Italy e del prodotto interamente italiano ed il regime fiscale applicabile ai proventi derivanti dalla partecipazione agli organismi di investimento collettivo in valori mobiliari esteri non armonizzati.
Fittiziamente, nell'illustrazione del provvedimento de quo si è affermato che il fondamento è da ravvisarsi nella necessità di adempiere ad obblighi comunitari giunti a scadenza, al fine di garantire il rispetto di quanto previsto dall'art. 117, comma primo, della Costituzione.
La Commissione europea, a causa del ritardo o del non corretto recepimento della normativa comunitaria nell'ordinamento nazionale, ha dato, infatti, avvio a numerose procedure d'infrazione nei confronti dello Stato italiano. Con il suddetto decreto si sarebbe dovuto porre rimedio alle esatte censure mosse dalla Commissione europea, al fine anche di evitare un aggravio di oneri a carico dello Stato, derivanti da possibili sentenze di condanna a pena pecuniaria da parte della Corte di Giustizia delle Comunità Europee o derivanti da contenzioso interno, ma così non è.
In secundis, preso atto degli emendamenti depositati presso la Commissione affari costituzionali, ci si interroga sulla ammissibilità di emendamenti del tutto estranei all'oggetto della discussione, in spregio, dunque, dell'art. 97, comma 1 del Regolamento.
Le medesime perplessità sono sorte persino ad esponenti del Governo durante l'esame del provvedimento in sede consultiva nell'8° Commissione, che hanno constatato come, gli emendamenti proposti ed accolti non appaiono necessitati dall'esigenza di prevenire il contenzioso con la Commissione europea ma ai quali sono sottese finalità misconosciute.
All'uopo, con un emendamento, il 3.0.5. presentato dal relatore Malan, si è persino inciso in materia di federalismo infrastrutturale.
Sostanzialmente si vorrebbero limitare le funzioni ed i poteri di soggetto concedente ed aggiudicatore dei soggetti di diritto pubblico appositamente costituiti in forma societaria e partecipati dalle Regioni e dall'ANAS S.p.a. alla sola realizzazione di infrastrutture autostradali che ricadano esclusivamente nel territorio di interesse regionale. Con una circonlocuzione chiara si escludono le Regioni dalla gestione delle concessioni autostradali, quasi nessuna infrastruttura autostradale è, infatti, di esclusivo interesse regionale.
Il federalismo infrastrutturale, fu voluto dall'allora Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, On.le Di Pietro, al fine di conferire alle Regioni un ruolo di attrici nel procedimento
di aggiudicazioni delle concessioni autostradali e non già di mere spettatrici dell'operato dell'ANAS S.p.a. e volto a far sì che le entrate legate ai pedaggi, per lo più provenienti dalla popolazione residente sul territorio, al netto degli investimenti e delle spese, rimanessero nel territorio, sì da costituire una fonte da cui attingere per la realizzazione di ulteriori infrastrutture.
Il federalismo dell'attuale governo lo denominerei del gambero.
Spesso, ho rinunciato ad una polemica, a volte fin troppo facile, offrendo leale collaborazione per realizzare obbiettivi essenziali per il nostro Paese ma non posso tacere dinanzi a ciò.
Nell'attesa del federalismo che verrà si distrugge quel che già c'è. Si escludono le Regioni dalla gestione delle concessioni autostradali, con grave detrimento sia per la realizzazione delle medesime infrastrutture autostradali che per le finanze delle Regioni, già oltremodo decurtate.
Leggendo questo articolo sembra esser ritornati all'epoca medioevale, massima valorizzazione dei feudatari, più o meno nuovi, a detrimento del popolo a cui, è bene rammentarlo, la Carta Costituzionale all'art. 1 attribuisce la sovranità. Ai cittadini, in posizione servente rispetto ad essi, si affiancano gli enti locali, ex art. 5 Cost., che, nel rispetto del principio di sussidiareità verticale, ne amministrano i servizi. Con l'emendamento 3.0.5. alle Istituzioni si vogliono sostituire i feudatari dell'epoca moderna.
Non so se arriverà un nuovo Mosè che, tornato dalla preghiera e scoperto che il proprio popolo è tornato a venerare un Dio pagano scordandosi della terra promessa, scuoterà il Governo.
Temo di no, pertanto, in questa sede mi faccio portatore dei diritti dei cittadini.
L'esercizio dei poteri e delle funzioni di soggetto concedente ed aggiudicatore delle concessioni autostradali devono rimanere agli Enti locali e non al mercato o a nuovi signori e men che mai a società quotate totalmente private, ossia agli investitori, che peggio degli operatori di epoca feudale passati da logiche mutualistiche a commerciali a imprenditoriali, sono infine approdati con gli hedge funds a soldi moltiplicatori di soldi.
Il Governo propone nell'ambito della conversione di un decreto legge recante disposizioni urgenti per l'attuazione di obblighi comunitari e per l'esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee, un siffatto emendamento, che, tra l'altro, non è volto ad eliminare alcun contrasto tra la normativa comunitaria, sub species tutela della libera concorrenza e la peculiare disciplina prevista dai commi 289 e 290 dell'articolo 2 della Legge 24 dicembre 2007, n. 244.
In conclusione, i fatti palesano una forte discrasia tra ciò che in astratto si declama e ciò che in concreto si realizza. Il Governo sembra gettare la maschera e mostrare la sua ritrosia verso il federalismo che, a suo tempo, ha rappresentato un cavallo di battaglia agevole da cavalcare ma, che ad oggi, sembra apparire scomodo e non meritevole di rispetto.
Un ultimo cenno vorrei rivolgerlo alla modifica che viene apportata con il provvedimento de quo alla disciplina dei servizi pubblici di rilevanza economica.
Appare evidente la spinta del Governo verso le privatizzazioni, in linea con la strategia di progressiva liberalizzazione dei servizi concordata a Marrakech in sede di WTO nel 1994 e ripresa nella Strategia di Lisbona nel 2000, ma che, ad oggi, a seguito delle numerose criticità emerse è in corso di revisione.
In questa sede non entrerò nel merito della riformulazione dell'articolo 23 bis della legge 133 del 6 agosto 2008, ma non posso omettere di richiamare l'attenzione sul servizio idrico.
L'inclusione di questo settore nella disciplina generale dei servizi di interesse economico non è tollerabile. L'acqua è un bene comune che deve necessariamente essere ripubblicizzato.
Recentemente il Ministro francese Francois Fillon ha sottolineato la necessità della riaffermazione del ruolo dello Stato nel settore dei servizi pubblici.
Benedetto XVI nella sua recente enciclica Caritas in veritate ha affermato che "l'accesso all'acqua è un diritto universale di tutti gli esseri umani senza distinzione e discriminazioni". Tutto questo è legato al diritto primario alla vita, l'acqua è vita, è intollerabile che la gestione del servizio idrico venga assimilata a quelli dei rifiuti. Si tratta della mercificazione di una risorsa essenziale, non si può assistere silenti innanzi ad un Governo che si fa paladino dei potentati economico-finanziari.
La forza del mercato sembra spazzar via ogni istanza egalitarista.
Si afferma il falso quando si dice che il servizio idrico integrato deve ricadere nella disciplina prevista per i servizi pubblici di rilevanza economica, pena la violazione dei principi comunitari.
Il protocollo n. 26 del trattato di Lisbona all'art. 2, riserva, infatti, ai singoli stati membri il potere di fornire, commissionare ed organizzare i servizi di interesse generale. Alla luce di questa norma gli Stati, o meglio gli enti locali, nel rispetto del principio di sussidiarietà, dovrebbero essere titolari del potere di identificare ed organizzare i servizi di interesse generale, scegliendone il modello di gestione.
Non posso, infine, esimermi dall'evidenziare i numerosi profili di illegittimità costituzionale che emergono dall'articolo 15. Lapalissiana appare la violazione dell'art. 5 della Carta Costituzionale, in particolare del principio di sussidiarietà, dell'art. 41 comma 3 Cost., in materia di determinazione dei programmi e dei controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali, dell'art. 43 Cost. relativo alla centralità del ruolo dell'impresa pubblica nella gestione dei servizi pubblici locali, dell'articolo 117, comma 2, Cost. relativo al riparto delle competenze tra Stato e Regioni, nonché della risoluzione del Parlamento n. 97/357 del Parlamento europeo in tema di servizi di interesse generale.
Nel modificare la disciplina dei servizi pubblici locali si è poi omesso di introdurre modifiche importanti quali il principio di separazione proprietaria tra le imprese che gestiscono la rete e le imprese che erogano il servizio. Occorre introdurlo, al fine di garantire un'effettiva concorrenza e trasparenza determinando un miglioramento del servizio ed una riduzione dei costi sopportati dagli utenti.
Concludo sottolineando che non possiamo permettere che enti locali, partecipazione dei cittadini, democrazia e federalismo rimangano lettera morta innanzi ad S.p.a. a cui, se non modifichiamo l'art. 15, consegneremo i rubinetti del nostro Paese.
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